Il cassetto dei ricordi smarriti
Trama
Il novantacinquenne Giovanni Maria Valsecchi di Roccatorre, sentendosi ormai alla fine dei propri giorni, decide che è giunto il momento di portare alla luce una storia accaduta più di settant'anni prima e che l'ha fatto vivere per tutto questo tempo con il tormento di aver mai concluso il primo e unico caso della sua carriera. Un giovane giornalista, chiamato dal nipote per assecondare le volontà del nonno, ascolta dapprima con disinteresse la storia, però man mano che il racconto prende corpo è assalito da una curiosità che si trasforma in interesse e che sfocia nella voglia di conoscere il finale. La memoria di Valsecchi ritorna agli anni della guerra, in quei cupi giorni dell'estate del '43, quando, a capo di una squadra investigativa della Regia Questura di Torino, era responsabile dell'indagine su un omicidio di un'affascinante donna, Elena Audisio, moglie di un ufficiale fascista morto in guerra, trovata strangolata nella sua casa. Il vice commissario, con i due marescialli della squadra, Frigerio, un piemontese ligio al dovere e Puleo, un siciliano accomodante, inizia una difficile indagine che, per via delle vicissitudini legate alla guerra, non si conclusero mai. Ma settant'anni dopo il giornalista, che si era appassionato alla storia, scopre la verità che lascerà meravigliato lo stesso Valsecchi appena prima dell'ultimo respiro.
CAP. I
Un
uomo si ferma davanti al civico 4 di via della Consolata, un palazzo in tardo
barocco piemontese, uno sguardo sul biglietto spiegazzato per accertarsi che
quello è l’indirizzo giusto.
Sul
bel portone di legno intarsiato, più volte ridipinto per via dei graffitari
di strada, una targhetta dorata e lucida ne indica il proprietario. Un veloce
tocco sul pulsante, quasi a non volere disturbare e subito dopo arriva il clack
della porta aperta.
Un
rumore di ferraglia attira la sua attenzione. È un tram che stride sui binari
fermandosi a qualche decina di metri dal portone, gente che scende, altra che
sale, tutti di fretta con lo sguardo fisso sul cellulare per non perdersi l’ultimo
Whatsapp appena arrivato.
L'uomo entra richiudendo il pesante portone dietro di sé, attraversa un cortile
in penombra, dove la luce riesce con fatica a penetrare dai vetri sporcati dal
tempo. Il palazzo non ha ascensore, particolare comune in molti stabili di
inizio Novecento, quindi via di gambe per quattro piani, dove gli scalini sono
alti il doppio di quelli moderni.
Il
fiatone incomincia a farsi sentire, appena arriva sul pianerottolo una porta si
apre all’improvviso. Dietro spunta una testa dai lunghi capelli arruffati.
«È
lei Paolo Pezzi, il giornalista?»
«Sì!
E lei deve essere Piero Valsecchi» chiede l’ospite con carenza di ossigeno.
Il
padrone di casa che indossa un cardigan, un pantalone grigio topo e un paio di
occhiali dorati, spalanca completamente la porta, saluta l’ospite con una
stretta di mano e con un cenno del braccio lo invita a entrare.
La
casa è arredata con mobili di pregio, un fascio di luce penetra da una finestra
e colpisce un antico specchio nel corridoio, incorniciato con foglie dorate
d’acanto. Lo sguardo dell’ospite s’insinua furtivamente in una stanza dove un
lampadario scintillante scende da un alto soffitto ornato di stucchi.
I
due entrano in una stanza adibita a studio, dove il buon gusto non manca;
l’attenzione dell’ospite si focalizza su un mobile-scrittoio, stile Luigi XVI,
con quattro cassetti per parte. Aleggia un odore di stantio, forse per troppo
tempo le finestre di quella casa sono rimaste chiuse.
«Prego,
si accomodi. Innanzitutto la ringrazio per aver accettato l’invito, forse le
sto facendo perdere tempo, purtroppo la situazione… ecco, è un po’ difficile da
spiegare»
«La
persona di nostra comune conoscenza mi ha accennato qualcosa che riguarda suo
nonno, una storia da raccontare. Sarò chiaro con lei, io non sono uno
scrittore, ma un giornalista di cronaca, quindi non vorrei dare a suo nonno
false aspettative. A proposito, come si chiama?»
«Giovanni
Maria Valsecchi di Roccatorre. Non si preoccupi per le sfumature, intendo
giornalista o scrittore, l’importante è la sua presenza» dice il nipote
sorridendo, mentre chiama qualcuno. Dopo qualche secondo una signora, di sicuro
la governante, appare trafelata.
«Cosa
posso offrirle?» chiede il nipote.
«Un
caffè…»
«Allora
due caffè!»
La
donna scompare velocemente.
«Per
riprendere il discorso, ecco credo di non avere capito. Lei accennava prima
alla mia presenza… che vuol dire?»
Il
nipote studia per qualche secondo il giornalista, poi accavalla le gambe,
intreccia le dita delle mani e fa roteare i pollici.
«Diciamo
che è un po’ difficile da spiegare, cercherò di essere più chiaro. Ecco… il
problema è che mio nonno vuole andarsene ma non può farlo, almeno questo è ciò
che asserisce»
«Non
ho capito…» risponde meravigliato il giornalista, irrigidendosi sulla sedia.
«Non
mi fraintenda. Io voglio molto bene al nonno, ma lui insiste che è arrivato al
capolinea della vita e non può andarsene perché c’è un’ultima cosa che deve
fare prima che il buon Dio lo chiami a sé»
«Si
spieghi meglio» chiede il giornalista sempre più incuriosito.
«Dal
punto di vista fisico sta bene, almeno se si considera che due mesi fa ha
compiuto novantacinque anni!». Il giornalista strabuzza gli occhi, poi sorride
facendo i complimenti per la longevità del progenitore. «Però lui ha delle
visioni che negli ultimi tempi sono aumentate. Dice di vedere la figura di una
donna che lo chiama da lassù» dice alzando lo sguardo al cielo.
«Ma
lui conosce questa donna?»
«In
un certo senso sì, si chiama Elena…»
«Non
capisco…»
«Ecco
questa donna lancia dei messaggi a mio nonno, gli dice che lui non può lasciare
questa vita perché deve concludere l’indagine»
«Scusi
per la domanda, ma mentalmente suo nonno sta bene?»
«Benissimo
e lo vedrà lei stesso»
«Mi
permetta di domandarle cosa dicono i figli di suo nonno, ovvero suo padre e sua
madre… cosa dicono?»
«Beh,
la mia famiglia è stata sfortunata, mio padre se n’è andato cinque anni fa per
un tumore e mia madre l’ha seguito qualche anno dopo, investita da un’auto
mentre attraversava la strada, la nonna è morta quindici anni fa. Così sono
rimasto da solo a occuparmi di lui, anche perché sono figlio unico. Certo, ho
la mia famiglia, moglie e due figlie, ma sono rimasto l’ultimo Valsecchi
maschio a portare questo nome»
«Mi
dispiace. Posso immaginare che deve avere avuto tanta forza d’animo dopo che i
suoi sono scomparsi»
«Ecco
perché sono molto attaccato al nonno, è l’unico legame che mi è rimasto con il
passato e per questo voglio che se ne vada lassù senza sofferenze, cosa che lui
vorrebbe, ma ripete continuamente che prima di farlo deve concludere un lavoro
iniziato settant’anni fa: mettere fine alla prima e unica indagine della sua
vita»
«Mi
parli di questa unica indagine» dice il giornalista accavallando le gambe.
«E’
un fatto accaduto settant’anni fa, una storia vera in cui è rimasto coinvolto
durante la guerra, quando era in servizio alla Questura di Torino. È un caso di
omicidio che non è riuscito a risolvere e per tutti questi anni ha convissuto
con quei ricordi e con un grande peso sulla coscienza, ossia non aver dato delle
risposte a chi aveva il diritto di conoscerle. Ma è meglio che parli
direttamente con lui. Lo vedrà pieno di energia ma non lo affatichi molto, ha
sempre novantacinque anni!»
Appare
la governante portando un vassoio con le tazzine di caffè, ci tiene a far sapere
al giornalista che è al servizio dei Valsecchi da ben vent’anni.
Il
giornalista posa la tazzina ormai vuota sul vassoio che la governante, come un
maggiordomo di corte, porta subito via, poi il nipote gli fa segno di seguirlo
nella stanza adiacente.
Nella
stanza da letto aleggia un leggero odore di umano che sa di vecchio, sul letto
giace un signore che riposa tranquillamente con i capelli bianchi spettinati,
la bocca semiaperta, gli occhi socchiusi e la pelle segnata dai profondi solchi
dell’età.
Il
nipote gli si avvicina e lo tocca dolcemente.
«Che
c’è?» farfuglia lui aprendo di colpo gli occhi.
«Nonno,
qui c’è la persona di cui avevamo parlato, quella per la tua storia»
Il
vecchio gira la testa verso il giornalista. I suoi occhi azzurri sono lucidi,
vispi, lo sguardo è penetrante.
«Aiutami
a scendere, voglio stare comodo sulla poltrona. Gli ospiti non devono essere
mai ricevuti a letto» dice con voce autoritaria verso il nipote.
Le
insistenze di questi e della governante non servono a nulla, il vecchio
pretende di andare in poltrona e così deve essere.
Il
giornalista non può non notare una tenace vitalità unita a un carattere che
sembra autoritario, ma nello stesso tempo ribelle, come chi è abituato a
comandare e a trasgredire. Il vecchio di sicuro possiede uno spirito
combattivo, di chi non si arrende mai nemmeno davanti alla vita.
Il
giornalista fa un sorriso di circostanza, dentro di sé sa che la sua visita
terminerà nel giro di qualche ora, detesta la parte che sta recitando, uno show
per accontentare un vecchio e un favore ad un amico.
Immagina
che Valsecchi gli racconterà una storia simile a quella di tante altre persone
della sua età “Ai miei tempi” e via con i ricordi di gioventù. Pazienza per la
mattinata persa, un favore è un favore!
Il
vecchio aiutato dai due si è lasciato andare sulla poltrona, mentre il nipote
sistema dei cuscini in modo da rendergli confortevole la posizione.
Valsecchi
senior da giovane deve essere stato un bell’uomo, occhi azzurri e penetranti,
fattezze del viso da aristocratico che seppur sbiadite e consumate dal tempo,
emanano ancora un suo fascino. L’anziano con un gesto invita l’ospite a
sedersi. Il giornalista lo ringrazia e si accomoda su una poltrona che la
governante ha foderato di cuscini.
«Mi
chiamo Paolo Pezzi e sono un giornalista di un quotidiano di Torino. Suo nipote
mi ha accennato qualcosa, ma prima di iniziare le chiedo cosa la spinge a
raccontarmi una storia di settant’anni fa che non interessa a nessuno ?»
Il
vecchio si passa la lingua sulle labbra, la governante pronta gli porge un
bicchiere d’acqua. Lui ne beve un paio di sorsi, il suo occhio attento esamina
l’espressione del giornalista, le fattezze del volto, lo sguardo, il suo modo
di parlare.
«Per
favore, voglio stare solo con il nostro ospite» sentenzia il vecchio al nipote
e alla badante.
Una
volta che i due sono usciti dalla stanza il vecchio fa segno all’ospite di
avvicinarsi,
«Voglio
rendere giustizia a una persona che tanti anni fa si è immolata nell’illusione
di poter aiutare questo paese e di cui nessuno conosce la storia, la cosa più
grave è che l’opinione pubblica ne ignora il nome. La conobbi indirettamente
tantissimi anni fa e ora, al termine della mia vita, mi attende lassù. Quando
ci incontreremo vorrei tanto dirle che finalmente le ho reso giustizia, quella
giustizia che non riuscii a renderle settant’anni fa. Ma soprattutto vorrei che
tutti conoscessero la storia di quella donna e quello che accadde in quel
lontano 1943»
«Suo
nipote mi ha parlato di questa donna che le apparirebbe in sogno»
«Già…
Elena mi ripete ogni notte che prima di raggiungerla, devo renderle giustizia,
una giustizia postuma e compromessa dal trascorrere degli anni. Tutti
dovrebbero conoscere la sua vita e il perché della sua morte, purtroppo il
tempo e gli avvenimenti di quel periodo hanno cancellato la sua esistenza e la
sua storia. Sfortunatamente allora non riuscii a scoprire il suo assassino,
anche se ci andai molto vicino. Mi creda che è un cruccio che mi porto da
settant’anni»
«Conosceva
questa donna?»
«Uhm…
come le ho detto indirettamente. Avrei voluto farlo da viva, purtroppo vidi
solo il suo cadavere. Come vuol procedere? Ha già in mente come pubblicare la
storia?»
«Se
non ha nulla in contrario prima vorrei sentirla» risponde il giornalista, quasi
a scusarsi.
Dentro
di sé si sente un po’ vigliacco, perché il racconto del vecchio non vedrà mai
la luce e non ci sarà mai nessuna storia pubblicata. Lui è lì solo per
restituire un favore a un conoscente.
«Capisco…»
sibila dubbioso il vecchio.
Il
giornalista prende il notes, la penna, accavalla le gambe. È pronto. Il vecchio
tossisce per schiarirsi la voce.
«La
storia che voglio raccontarle si svolse tra il giugno del ’43 e i primi del
maggio del ’45. Ero un giovane vice commissario della Pubblica Sicurezza presso
la Regia Questura di Torino. Prima di allora prestavo servizio nella famosa
Presidenziale, quella incaricata della scorta del Duce. Bei tempi quelli!
S’immagini un ragazzo di venticinque anni, anche belloccio, che scortava il
Duce. Quando lui si muoveva eravamo i suoi angeli custodi, sempre con
discrezione, senza mai apparire, non come quei politici di adesso, sempre
circondati da uomini con radio e diavolerie varie, perché sa di potenza. No…
lui no! Ricordo ancora le folli corse sulla strada per Ostia con la sua Lancia
Appia sportiva e noi sparati dietro, faticavamo per non perderlo di vista! Poi,
dopo l’entrata in guerra, i suoi spostamenti furono sempre meno frequenti, si
circondò di gerarchi, di militari, insomma il lavoro diminuì. Ci scommetto che
si chiederà come mai un giovanotto di 25 anni era nella scorta di Mussolini?»
«Me
lo dica lei…» risponde il giornalista con un sorriso accondiscendente.
«Grazie
a mio padre Giulio, il conte Giulio Maria Valsecchi, un fascista della prima
ora che spadroneggiava ad Ancona. Pensi che dava del tu persino al Duce.
Ebbene, mio padre mi fece arruolare nella Pubblica Sicurezza, come si chiamava
allora la polizia, e dopo il corso fui trasferito alla Presidenziale. Riconosco
che ci mise una parolina, ma io non ne ho mai approfittato»
Il
vecchio indica il bicchiere, il giornalista si alza e glielo porge.
«Un
ultimo favore. Nello scrittoio nel salone, nel quarto cassetto a destra, ci
sono dei documenti. Li prenda. Sono le carte che ho conservato durante tutti
questi anni, le carte dei ricordi smarriti, come le chiamo io» dice sorridendo.
Paolo
apre il cassetto dove è conservata una cartella in cartoncino grigio con la
scritta “Regia Questura di Torino”.
Dà una rapida occhiata all’interno, dei fogli gialli di carta velina battuti a
macchina, timbri, protocolli e delle note a penna nera. Fogli di un tempo.
Il
giornalista ritorna dal vecchio, che ha già inforcato gli occhiali e glieli
porge.
«Quando
vuole può continuare…» dice il giornalista.
«Quel
maledetto maggio del ’40 entrammo in guerra. Nessuno voleva la guerra, il Duce
lo fece solo per compiacere quel farabutto di Hitler, di cui era succube. Lo
sapevamo tutti che non eravamo preparati, anche i gerarchi e i nostri generali,
ma nessuno ebbe il coraggio di dirglielo, così mandammo al macello la nostra
migliore gioventù. Anche per me incominciò ad andare tutto storto…»
«Perché?»
«Qualche
anno prima, nel ’38, entrarono in vigore le leggi razziali, un altro sbaglio
del regime. Agli ebrei era stato precluso tutto, molti dovettero fuggire,
professori, scienziati e dipendenti pubblici, chi aveva i soldi emigrò
all’estero, gli altri dovettero sparire, insomma quelli lì non dovevano più
esistere. Cercammo di limitare l’applicazione della legge, ma la Polizia
Politica braccava gli ebrei come un mastino. Noi della Presidenziale non ci
occupavamo di queste cose, ma io non accettavo le discriminazioni, quelli erano
italiani come noi, avevano combattuto nella Grande Guerra, erano morti per
l’Italia e non era giusto perseguirli. Purtroppo confidai queste cose a qualche
collega che credevo un amico e la cosa arrivò alle orecchie dell’OVRA, il
servizio di informazioni del Duce. Un giorno il Capo della Presidenziale, un
prefetto, mi convocò a rapporto e mi accusò di disfattismo per il mio comportamento.
Per mia fortuna intervenne mio padre che riuscì a convincere il Duce a ritirare
l’ordine di arresto, però pretese che fossi trasferito lontano da Roma. Mi
mandarono a Torino, dove arrivai nel marzo del ’43. A quell’epoca le sorti
della guerra erano disastrose, la propaganda del Ministero della Cultura
Popolare ci martellava con eroiche resistenze, si parlava ancora di vittoria,
ma erano menzogne. Stavamo per essere cacciati dall’Africa, le nostre divisioni
erano scomparse in Russia, la Marina era per metà affondata e per metà bloccata
nei porti, l’Aeronautica non esisteva più, la gente pativa la fame, mancava la
corrente, scarseggiava l’acqua, insomma i segnali di una sconfitta erano
evidenti. Così, in una calda giornata di inizio giugno, i colleghi della
Politica mi accompagnarono, forse è meglio dire mi scortarono, alla stazione
Termini e si assicurarono che salissi sul treno. Fu un viaggio lungo e a tratti
pericoloso»
Scheda
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